Covid: i cinque insegnamenti dell’anno che non dimenticheremo
di Alessandra FerrettiS24 Un anno di Covid-19.
Data:
23 Febbraio 2021
di Alessandra FerrettiS
24
Un anno di Covid-19. Tutto da ricordare, studiare, imparare. Del 2020 non dobbiamo buttare nulla, ma con un misto di dolore e lucidità abbiamo il dovere di ripercorrerlo, oggi a caldo, domani a freddo, per trarre da esso ogni minimo, possibile insegnamento e “profitto intellettuale”. Lo dobbiamo a tutte le persone malate, a quelle scomparse, a quelle che lavorano in prima linea, a tutti coloro che hanno sofferto e a tutti noi che abbiamo il dovere non tanto di impedire una futura pandemia, ma di farci trovare il più preparati possibile. “Estote parati”, “state pronti” recitava il latino ecclesiastico. Oggi questo deve diventare il nostro mantra, ispirato tuttavia non a inutili critiche o recriminazioni, ma a quella spirale positiva di meccanismi che si è innescata dopo il 21 febbraio 2020 e che forse in parte è rimasta nascosta dietro ai freddi e tormentati numeri del virus.
Cosa abbiamo imparato dal Sars-CoV-2?
Primo. Abbiamo compreso come la ricerca scientifica e quella clinica siano osmotiche. E come le ricerche svolte in passato – che fossero di successo o insuccesso, allineate o controcorrente, riconosciute o misconosciute dal mondo accademico e clinico – possano tornare utili quando meno ce lo aspettiamo, se non addirittura “miracolose” di fronte all’emergenza-urgenza.
Accade ad esempio con i farmaci. Il tocilizumab, anticorpo monoclonale in grado di bloccare il recettore dell’interleuchina-6 (IL-6), è da tempo utilizzato per trattare patologie come l’artrite reumatoide e viene tutt’oggi utilizzato per spegnere l’infiammazione a livello polmonare nei pazienti Covid+.
Ancora, il desametasone, farmaco corticosteroide capace di prevenire il rilascio di sostanze che scatenano l’infiammazione, da circa cinquant’anni viene utilizzato per trattare disturbi associati all’infiammazione (dalle allergie ai problemi dermatologici, alla colite ulcerosa, al lupus, a disturbi respiratori, ecc.) e, per come viene sfruttato oggi, è in grado di ridurre di un terzo la mortalità nei casi critici (terapia ventilatoria) di Covid-19.
Lo stesso bagaglio scientifico studiato nel passato torna utile anche quando si tratta del fattore prognostico per il Covid-19. Vedasi ad esempio la pentrassina-3 (PTX-3), molecola appartenente alla famiglia delle pentrassine “lunghe”, normalmente presente a livelli bassissimi nell’organismo umano. Ma è sufficiente che si verifichi uno stimolo infiammatorio, affinché attivi una serie di meccanismi che ne aumentano rapidamente la concentrazione. Scoperta all’inizio degli anni Novanta dal gruppo guidato da Alberto Mantovani, Direttore scientifico di Humanitas e professore emerito di Humanitas University, applicata dapprima nelle infezioni contro il fungo Aspergillus fumigatus e successivamente per la sua capacità oncosoppressiva, oggi è in fase di sperimentazione clinica all’Humanitas di Milano e al Papa Giovanni XXIII di Bergamo come marcatore di gravità per i pazienti affetti da Covid-19.
Ultimo esempio egualmente attuale, i vaccini a base di mRNA Biontech-Pfizer e Moderna. Se è vero che in dodici mesi è stato sviluppato un vaccino (anzi, più di uno) contro un virus a noi sconosciuto, è anche vero che la tecnica dell’RNA messaggero era studiata da trent’anni. E non è un caso che dietro al vaccino BioNTech-Pfizer ci siano un oncologo (Uğur Şahin) e un’immunologa (Özlem Türeci), co-fondatori della BioNTech, che da una vita sono impegnati nella ricerca contro il cancro. E nemmeno che dietro a loro ci siano due biochimici, Katalin Karikò e Andrew Weissman, che insieme risolsero il problema del rigetto nell’impiego dell’mRNA nel vaccino contro l’HIV come lo stavano studiando. Lo risolsero inibendo l’uridina (uno dei 4 composti chimici dei filamenti di mRNA che sollecita una risposta contro le molecole aliene dell’mRNA modificato) “ingannandola” ovvero riallineandola con la pseudouridina, configurazione molecolare che in questo modo non risulta più sospetta.
Secondo. Abbiamo imparato (o forse non ancora) come tutto il progresso della scienza vada reso fruibile e comunicabile ad un’opinione pubblica spaventata e disorientata, che necessita con urgenza di un messaggio chiaro, coeso e univoco. Come scriveva Karl Popper, “ogni scienziato dovrebbe comunicare alla società quello che fa, nel modo più semplice, comprensibile e modesto possibile”. Ciò ancora non sta accadendo, ma la sua necessità la gridiamo a gran voce.
Soltanto così si potranno integrare i due modelli di approccio alla malattia di cui oggi abbiamo disperatamente bisogno. Quello biologico, in cui la malattia si combatte sfruttandone i meccanismi, appunto, “biologici”. E il modello sociale, nel quale la mattia si sviluppa anche in circostanze sociali per cui, controllando quelle circostanze, si riesce a controllare, in parte, anche la malattia. Ci riferiamo a tutte le misure di contenimento e prevenzione che in tempo di Covid-19 abbiamo imparato a conoscere bene, ma anche queste non sono una novità. Accadde già a fine anni ’70, quando, a fronte di inattesi picchi di tumori e infezioni nelle comunità LGBT della California e a New York, si sfruttò la sinergia di terapie antivirali e di misure di prevenzione sociali e individuali volte a limitare morti e infezioni da Hiv/AIDS.
Terzo. Abbiamo imparato come infiammazione e immunità siano la chiave di volta per studiare e capire malattie che di primo acchito potrebbe sembrare non abbiano nulla in comune tra loro. Un esempio è proprio quello del cancro e del Covid-19.
Per ciò che sappiamo (e non sappiamo ancora) del virus Sars-Cov-2, fattori importanti sono l’invecchiamento (legato all’infiammazione), lo stile di vita (fumo, obesità), l’ambiente, probabilmente anche una componente genetica (oltre ovviamente al carico virale, come accade per tutte le malattie virali). Fattori già noti, perché li citiamo quando parliamo di tumori. E non è un caso. Perché esiste un denominatore comune a entrambe le patologie Covid e cancro: una componente infiammatoria fuori controllo. L’infiammazione è uno dei modi con cui il sistema immunitario contrasta le situazioni di pericolo, ma quando va fuori controllo può scatenare alcune delle malattie più diffuse del nostro millennio, come il cancro, appunto. Ecco perché contro il Covid-19 siamo riusciti a fare in un anno quello che abbiamo fatto nella lotta contro il cancro in 40/ 50 anni.
Quarto. La condivisione della scienza. Questo è avvenuto su due livelli. Da una parte, tra saperi e specializzazioni, dall’altra tra laboratori di ricerca e corsie di ospedale di paesi di tutto il mondo. La scienza non progredisce se viene tenuta gelosamente custodita tra le mura del proprio laboratorio. Durante questa pandemia mondiale, proprio perché l’emergenza riguardava ogni singola persona su questa terra, i ricercatori hanno condiviso dati, conoscenze, scoperte e le hanno messe a disposizione degli altri. Karikò e Weissman s’incontrarono per caso davanti ad una fotocopiatrice e lì, condividendo un pensiero, scoprirono che da anni lavoravano sul medesimo problema e solo insieme ne trovarono la soluzione.
La stessa storia della pentrassina-3, dopo la sua identificazione da parte del gruppo di Humanitas, si sviluppò grazie a reti di collaborazioni che attraversano gli emisferi: dall’Italia al Portogallo, all’Indonesia, all’Australia.
E se è vero che il progresso nella scienza ha una propria inevitabile componente di competizione, è anche vero che ne ha un’altra, indispensabile, di collaborazione.
Quinto. L’esperienza della pandemia ci ha ricordato chi siamo e come dovremmo essere. Il Covid-19, da un lato, ha fatto scomparire l’asimmetria che tipicamente si crea tra medici e pazienti, dal momento che anche i primi correvano lo stesso rischio di ammalarsi dei secondi – e lo abbiamo purtroppo visto. Dall’altro, ha fatto sì che il paziente in un letto d’ospedale catalizzasse tutte le aspettative su persone a lui completamente sconosciute. Una dimostrazione di fiducia cieca, totale, che ci ha ricordato come tutti noi siamo esseri umani, sociali, “reciproci”.
La nostra sicurezza e la nostra salute dipendono anche da paesi lontanissimi da noi, con cui apparentemente poco abbiamo in comune. Egualmente, la condivisione e il confronto con questi stessi paesi (vedi il caso delle varianti: sudafricana, brasiliana, inglese…) dovranno diventare più la normalità che l’eccezione.
Il risultato di tutto questo dovrà assolutamente essere un accesso equo ai farmaci e soprattutto ai vaccini, base indiscussa per un futuro prospero della nostra comunità mondiale.
E non potremo più permetterci di dire, come è stato detto dal Direttore generale dell’OMS, Tedros Ghebreyesus, a sei mesi dal primo caso dichiarato di polmonite anomala a Wuhan, “nessuno di noi avrebbe mai potuto immaginare che il nuovo virus avrebbe gettato tanto scompiglio nel nostro mondo e nelle nostre vite”. Piuttosto, dovremo dar ragione a chi sostiene, come la storica dell’ambiente Libby Robin, che “il futuro non è più un fatto determinato”, ma “qualcosa che creiamo noi”.
No, del 2020 non dobbiamo dimenticare nulla. E farlo sarà un nostro dovere etico e morale.
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Ultimo aggiornamento
23 Febbraio 2021, 20:19
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