Infermieri di famiglia e comunità: la Corte dei conti ne certifica il mancato utilizzo
Infermieri di famiglia e comunità per implementare un nuovo modello di assistenza domiciliare anche durante la pandemia per pazienti covid e non covid: ancora a rilento l’immissione nel sistema.
Data:
31 Maggio 2021
Infermieri di famiglia e comunità per implementare un nuovo modello di assistenza domiciliare anche durante la pandemia per pazienti covid e non covid: ancora a rilento l’immissione nel sistema.
Il decreto Rilancio ne ha previsti 9.600 a maggio 2020, per il primo anno con contratti flessibili e dal 2021 assunti a tempo indeterminato: finora sono in servizio solo in 1.132, l’11,9% delle previsioni.
A certificarlo è la Corte dei conti nel suo Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica, dove tra si dice chiaramente che “limitato è il grado di attuazione di misure, quali l’utilizzo degli infermieri di comunità” e “incerti anche i risultati sul fronte del potenziamento dell’assistenza domiciliare o del recupero dell’attività ordinaria sacrificata nei mesi dell’emergenza, che rappresenta forse il maggior onere che la pandemia ci obbliga ora ad affrontare”.
La Corte dei conti parla chiaro: 747mila ricoveri in meno e 145 milioni di prestazioni ambulatoriali per i pazienti non Covid saltati per la pandemia e non ancora recuperati, visto che delle risorse stanziate per farlo è stato utilizzato solo il 62% (in alcune Regioni anche meno del 20%).
E dei 32mila infermieri impegnati nell’emergenza (soprattutto in ospedale), la maggior parte sono a tempo determinato: il 27,4% hanno avuto un contratto stabile.
“L’assistenza sul territorio, ma a che quella in ospedale – afferma Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche – non si può limitare all’emergenza difronte ai milioni di prestazioni ‘saltate’ e che per ora non si accenna a recuperare. Per questo non si può pensare di utilizzare personale assunto in modo precario: è necessario riorganizzare i servizi e integrare gli organici. La carenza di infermieri supera le 60mila unità e il peso si questa situazione si fa sentire in modo sempre più serio sull’assistenza”.
“Senza infermieri non c’è salute, ma soprattutto non c’è assistenza h24 – aggiunge Mangiacavalli –. Ora, grazie anche al Recovery Plan che stanzia risorse importanti proprio per implementare le cure di prossimità, il Governo metta in campo tutte le misure per potenziare gli organici infermieristici e per stabilizzarne l’inquadramento contrattuale: oggi la media degli infermieri per mille abitanti è di circa 5,7, mentre nei paesi dell’OCSE supera l’8,5”.
“Gli studi nazionali e internazionali parlano chiaro: pochi infermieri riducono anche il livello di assistenza erogato dai servizi. La correlazione del numero di assistiti in carico a ogni infermiere (nel servizio pubblico) lega, a ogni paziente in più, rispetto a uno standard medio di 6 per professionista, un rischio aumentato di mortalità del 5-7% (ma in alcuni servizi, come le Terapie Intensive o l’assistenza pediatrica, il rapporto diminuisce a 4 e anche a 2 pazienti per infermiere). Non si può non garantire l’assistenza con personale stabile, motivato e formato secondo le linee specialistiche di cui anche durante i momenti più gravi dell’emergenza è emersa la necessità”.
Sopra alla media delle nuove assunzioni ci sono solo 6 regioni: l’Emilia-Romagna e la Campania (rispettivamente con il 19,9 e il 18,9 per cento), la Puglia (al 17,7 per cento), l’Abruzzo (16,2 per cento), il Lazio (14,8 per cento) e la Toscana (14,2 per cento).
Significative sono le differenze tra aree territoriali. Nel Nord-ovest risulta sopra la media la quota dei medici e soprattutto di quelli abilitati ma non specializzati (che rappresentano il 38,2 per cento di questi operatori). Sono molto limitate le assunzioni a tempo indeterminato (circa il 3,1 per cento del totale).
Nel Nord-est e nel Centro cresce in misura rilevante il peso degli infermieri sul totale degli operatori a cui le regioni hanno fatto ricorso (rispettivamente il 41,8 e il 42,2 per cento del personale). Aumenta nel Centro, ben al di sopra della media nazionale, la quota dei medici con contratto a tempo indeterminato (il 10,4 per cento) ma sale soprattutto, seppur con una qualche variabilità tra regioni, la quota media di quello infermieristico che nelle due aree è stato assorbito stabilmente (rispettivamente al 44,5 e al 52,5 per cento).
Nelle regioni del Sud si riduce il peso dei medici (poco più del 18,8 per cento), ma cresce di molto la quota di quelli con un contratto a tempo indeterminato (il 16 per cento). Nonostante invece il forte rilievo del personale infermieristico tra quello su cui si è basato il potenziamento delle risorse umane impiegate per rispondere alla crisi (il 42,6 per cento del totale), solo per l’8,5 per cento il rapporto instaurato è a tempo indeterminato.
Nelle Isole la quota di incremento maggiore ha riguardato le altre professioni sanitarie (il 43,3 per cento) mentre medici ed infermieri presentano quote simili. In tutti i casi tuttavia limitatissimo è il rilievo dei rapporti a tempo indeterminato.
Ultimo aggiornamento
31 Maggio 2021, 21:31
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