Covid. Ecco perché l’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari dovrebbe essere esteso anche alla terza dose
di Giovanni Rodriquez Come spiegato ieri anche da una sentenza del Consiglio di Stato, nel dovere di cura, che incombe al personale sanitario, “rientra anche il dovere di tutelare il paziente, che ha fiducia anche nella sicurezza di chi cura e del luogo in cui si cura”.
Data:
21 Ottobre 2021
di Giovanni Rodriquez
Come spiegato ieri anche da una sentenza del Consiglio di Stato, nel dovere di cura, che incombe al personale sanitario, “rientra anche il dovere di tutelare il paziente, che ha fiducia anche nella sicurezza di chi cura e del luogo in cui si cura”. Con l’ormai acclarato calo della protezione nel tempo del vaccino contro il Covid dalla possibilità di infezione, anche la terza dose dovrebbe quindi a nostro avviso essere obbligatoria per garantire al paziente non solo la sicurezza della cura ma anche la sicurezza di chi lo andrà a curare
21 OTT – Pensiamo che l’obbligo di vaccinazione contro il Covid per gli operatori sanitari, introdotto con dall’art. 4 del decreto legge n. 44/2021, dovrebbe essere esteso anche per le terze dosi. Una ipotesi che appare coerente sia per dare seguito ai presupposti alla base della norma precedentemente richiamata ma anche con le motivazioni chiarite ieri nella sentenza del Consiglio di Stato con la quale è stata bocciata un’istanza di alcuni operatori sanitari della Regione Friuli Venezia Giulia non ancora vaccinati contro il Covid.
Come chiarito dalla citata sentenza, la vaccinazione obbligatoria selettiva per il personale sanitario “risponde ad una chiara finalità di tutela non solo – e anzitutto – di questo personale sui luoghi di lavoro e, dunque, a beneficio della persona, secondo il già richiamato principio personalista, ma a tutela degli stessi pazienti e degli utenti della sanità, pubblica e privata, secondo il pure richiamato principio di solidarietà, che anima anch’esso la Costituzione, e più in particolare delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l’esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l’avanzato stato di età), che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e assistenza”.
Si pone dunque una questione riguardante non solo il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro a tutela dei lavoratori, ma anche di sicurezza delle cure, principio enunciato dalla legge Gelli, laddove si afferma come questa sia “parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività”. La sicurezza delle cure, precisa sempre la legge Gelli, si realizza anche mediante “l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie”, e alle attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, “è tenuto a concorrere tutto il personale”.
Proprio in ragione di questo generale principio – che precede l’attuale emergenza epidemiologica – spiega il Consiglio di Stato che “è lecito attendersi dal paziente bisognoso di cura e assistenza, che si rechi in una struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, ed è doveroso per l’ordinamento pretendere che il personale medico od infermieristico non diventi esso stesso veicolo di contagio, pur sussistendo un rimedio, efficace e sicuro, per prevenire questo rischio connesso all’erogazione della prestazione sanitaria”.
Alla luce di tutto questo, e di fronte alle ormai accertate evidenze scientifiche sul calo nel tempo della protezione dei vaccino contro il Covid dalla possibilità di infezione, sarebbe quindi logico estendere l’attuale obbligo vaccinale anche per le terze dosi per continuare ad evitare, per quanto possibile, quello che nella sentenza viene definito come un “macabro paradosso”, ossia quello per cui i pazienti gravemente malati o anziani, ricoverati in strutture sanitarie contraessero il virus, con possibili effetti letali, proprio nella struttura deputata alla loro cura e per causa del personale deputato alla loro cura.
La semplice raccomandazione risulterebbe infatti insufficiente a garantire un’adeguata sicurezza nei luoghi di cura, ed il possibile venir meno della vaccinazione si andrebbe a configurare come un tradimento della relazione di cura e fiducia tra paziente e medico. Nel dovere di cura che compete al personale sanitario rientra anche il dovere di tutelare il paziente, che ha fiducia non solo nella sicurezza della cura, ma anche nella sicurezza di chi lo andrà a curare.
Il dovere di cura e la relazione di fiducia, come spiegato nella sentenza del Consiglio di Stato, non possono lasciare il passo “a visioni individualistiche ed egoistiche, non giustificate in nessun modo sul piano scientifico, del singolo medico che, a fronte della minaccia pandemica, rivendichi la propria autonomia decisionale a non curarsi”.
Giovanni Rodriquez
21 ottobre 2021
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Ultimo aggiornamento
21 Ottobre 2021, 21:18
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