Demografia. Istat: “Nel 2021 calano i residenti che scendono sotto i 59 mln. Nascite mai così basse: 399 mila. Covid ha causato 59 mila decessi”
Pubblicati dall’Istat i nuovi indicatori demografici 2021 dopo che il mese scorso era stata lanciata una preview.
Data:
9 Aprile 2022
Pubblicati dall’Istat i nuovi indicatori demografici 2021 dopo che il mese scorso era stata lanciata una preview. Natalità al minimo storico, mortalità alta ma in calo sul 2020: 7 neonati e 12 decessi per mille abitanti. Età media della popolazione in rialzo: 46,2 anni al 1° gennaio 2022. Dopo il calo del 2020 torna a crescere la speranza di vita (82,4 anni in media). Il numero medio di figli per donna si attesta nel 2021 a 1,25 figli per donna, dunque in lieve rialzo rispetto all’1,24 del 2020, ma sale a 32,4 anni l’età media delle donne al primo figlio. IL REPORT
08 APR –
Nel 2021 si registrano sempre meno residenti in Italia. Al 1° gennaio 2022, secondo i primi dati provvisori, la popolazione scende a 58 milioni 983 mila unità (-253 mila rispetto al 2021). Nell’anno si riscontrano 709 mila decessi, il 4,2% in meno sul 2020 con un tasso per abitante pari al 12 per mille. Di tali decessi, circa 59 mila sono dovuti a mortalità da e con Covid-19. Al contrario si registra un nuovo record negativo per le nascite che scendono a 399 mila. Nel 2021 la speranza di vita alla nascita è stimata in 80,1 anni per gli uomini e in 84,7 anni per le donne. Senza distinzione di genere risulta pari a 82,4 anni. Le stime, pertanto, mostrano un recupero rispetto al 2020, quantificabile in 4 mesi di vita in più per gli uomini e in circa 3 per le donne. Rispetto al periodo pre-pandemico, tuttavia, il gap rimane sostanziale. Il numero medio di figli per donna si attesta nel 2021 a 1,25 figli per donna, dunque in lieve rialzo rispetto all’1,24 del 2020, nonostante l’ulteriore declino delle nascite. Sono questi alcuni dei dati dei nuovi indicatori demografici 2021 pubblicati dall’Istat.
La pandemia allenta ma non rimuove la morsa sulle componenti demograficheIl 2021 restituisce un quadro complessivo nel quale la pandemia continua a esercitare effetti sul comportamento demografico, per quanto non al livello dell’anno precedente. Sulla componente più diretta, quella della mortalità, nell’anno si riscontrano 709 mila decessi, il 4,2% in meno sul 2020 con un tasso per abitante pari al 12 per mille. Di tali decessi, circa 59 mila sono dovuti a mortalità da e con Covid-19, come accertato dal Sistema di Sorveglianza Nazionale integrata coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS).
La progressiva riduzione delle misure nei confronti della mobilità ha permesso un sostanziale rialzo delle migrazioni sia con l’estero sia tra Comuni. Le iscrizioni dall’estero sono state 286 mila, registrando un rialzo del 15,7% sul 2020. Le cancellazioni per l’estero, in totale 129 mila, subiscono invece una frenata del 19% sull’anno precedente, cosicché il saldo migratorio netto risultante perviene nel 2021 al livello di +157 mila (2,7 per mille), ossia a un livello analogo a quello rilevato nel 2019 quando della pandemia non vi era ancora traccia.
Per quanto riguarda la mobilità interna si rileva una crescita del volume complessivo del 5,9%: sono 1 milione 412 mila i trasferimenti registrati tra i Comuni italiani nel 2021, un livello non lontano da quello del 2019 quando se ne registrarono 1 milione 485 mila.
Tra gli elementi positivi si sottolinea un sostanziale sblocco dei vincoli oggettivi al desiderio di formare famiglia attraverso l’unione coniugale. Superato il blocco pandemico del 2020, nel 2021 si sono celebrati 179 mila matrimoni, con una crescita dell’85% sull’anno precedente che non ha tuttavia riportato la frequenza annua al livello del 2019.
Un ambito che ancor più marcatamente segna la prosecuzione delle tendenze regressive in corso è quello della natalità. Con 399 mila neonati, l’anno 2021 certifica l’ennesimo traguardo storico del record di minore natalità mai registrato nella Storia d’Italia. D’altra parte, poiché le intenzioni riproduttive delle coppie manifestatesi nel 2021 hanno per lo più avuto corso nel 2020, alla più che consolidata questione nazionale della bassa fecondità si sono associati gli effetti del lockdown, generando ancora più incertezza nelle scelte di pianificazione familiare.
I fattori pandemici combinati alle questioni demografiche nazionali di lungo corso, tra le quali soprattutto quella del perdurante mantenimento della fecondità su valori minimi, hanno così determinato anche nel 2021 un livello molto negativo del saldo naturale. Dopo la cifra record di -335 mila unità del 2020, nel 2021 si è passati a -309 mila facendo così apparire un flebile ricordo, era il 2006, l’ultima volta in cui nascite e decessi erano in sostanziale equilibrio.
In tale contesto, i flussi migratori netti con l’estero, pur tornati ampiamente positivi nel 2021, sono ancora lontani dal poter controbilanciare la perdita di popolazione dovuta a cause naturali, così come avveniva nel primo decennio degli anni 2000 e nella prima parte del secondo fino a tutto il 2013 incluso.
A margine del quadro nazionale, ma con effetti sostanziali, il comportamento demografico emerso nel 2021 comporta, sotto diversi profili, anche una crescita delle diseguaglianze territoriali.
Persi in un anno oltre 250 mila residenti
La popolazione residente è in riduzione costante dal 2014 quando risultava pari a 60,3 milioni. Al 1° gennaio 2022, secondo i primi dati provvisori, la popolazione scende a 58 milioni 983 mila unità cosicché nell’arco di 8 anni la perdita cumulata è pari a 1 milione 363 mila. Di tale ammontare complessivo i comportamenti demografici emersi nel corso del solo 2021 sono responsabili per un calo di 253 mila unità.
La variazione relativa della popolazione è dunque pari al -4,3 per mille, in moderato miglioramento rispetto al 2020 (-6,8 per mille). Scomposta nelle singole componenti tale variazione si deve a un saldo migratorio con l’estero pari a +2,7 per mille, a un ricambio naturale pari al -5,2 per mille e, infine, alle voci riguardanti le ordinarie operazioni di allineamento e revisione delle anagrafi (saldo per altri motivi) responsabili di un -1,7 per mille.
In un quadro tendenziale dove le diseguaglianze territoriali tornano a essere evidenti, la crisi demografica colpisce maggiormente il Mezzogiorno (-6,5 per mille) e, in particolar modo, regioni come Molise (-12 per mille), Basilicata (-9,5) e Calabria (-8,6), sempre più sul procinto di essere coinvolte in una situazione da cui appare difficile poter uscire.
Ben 34 delle complessive 38 Province del Mezzogiorno presentano un tasso di variazione annuale della popolazione peggiore di quello nazionale (-4,3 per mille) e in 9 di queste la riduzione relativa è a doppia cifra: si va dal -10,6 per mille riscontrato nella Provincia di Oristano al
-15,4 per mille in quella di Isernia, con in mezzo circoscrizioni importanti come Nuoro, Campobasso, Enna, Potenza, Benevento, Caltanissetta e Crotone.
Speranza di vita in parziale recupero ma ampia disomogeneità sul territorio
Nel 2021 la speranza di vita alla nascita è stimata in 80,1 anni per gli uomini e in 84,7 anni per le donne. Senza distinzione di genere risulta pari a 82,4 anni. Le stime, pertanto, mostrano un recupero rispetto al 2020, quantificabile in 4 mesi di vita in più per gli uomini e in circa 3 per le donne. Rispetto al periodo pre-pandemico, tuttavia, il gap rimane sostanziale. Nel confronto con il dato del 2019, per esempio, gli uomini subiscono una perdita in termini di speranza di vita alla nascita di 11 mesi, le donne di 7.
Nel Nord la speranza di vita alla nascita, senza distinzione di genere, risulta pari a 82,9 anni, recuperando quindi 11 mesi di sopravvivenza sul 2020. Ne resterebbero da recuperare 7 per assorbire il divario anche sul 2019. Peraltro, in alcune regioni settentrionali il recupero raggiunto in un solo anno è notevole; ad esempio in Lombardia dove, grazie a una speranza di vita alla nascita totale di 83,1 anni, si recuperano ben 20 dei 27 mesi perduti. Fa eccezione il Friuli-Venezia Giulia con una speranza di vita alla nascita totale che scende di ulteriori 6 mesi in aggiunta ai 10 già persi nel 2020.
Nessuna regione del Centro evidenzia margini di miglioramento nel corso del 2021. Al contrario, con 82,8 anni di speranza di vita totale, questa ripartizione consegue una perdita di un ulteriore mese di vita in aggiunta ai 7 già perduti nel 2020.
L’eccesso di mortalità si trasferisce nel Mezzogiorno
Nel 2021 si riscontra un aumento dell’eterogeneità territoriale, sotto forma di crescita delle distanze di sopravvivenza tra Nord e Mezzogiorno. In quest’ultima ripartizione, infatti, la speranza di vita alla nascita totale scende a 81,3 anni, evidenziando una perdita di 6 mesi che vanno a cumularsi ai 7 mesi ceduti nel 2020.
Una spiegazione possibile del fenomeno riguarda i tempi di propagazione della pandemia. La prima ondata del 2020 ha colpito soprattutto il Nord mentre il Mezzogiorno è stato maggiormente coinvolto solo a partire dalla seconda, ossia nell’ultima parte dell’anno. Cosicché è verosimile che le persone più fragili residenti al Nord abbiano pagato il prezzo della vita prevalentemente nel 2020, quelle del Mezzogiorno nel 2021, con la terza e quarta ondata.
Sotto tale punto di vista è esemplare il caso di molte province del Nord-ovest, le più colpite dalla prima ondata pandemica, che nel 2021 conseguono straordinari recuperi di sopravvivenza. La provincia di Bergamo, ad esempio, recupera nel 2021 ben 43 dei 44 mesi di speranza di vita ceduti nel 2020, così come Cremona (37 su 44), Piacenza (31 su 39) e Lodi (31 su 44).
Al contrario, molte realtà del Mezzogiorno che nel 2020 sono state minimamente o affatto toccate dalla pandemia, nel 2021 arretrano di molte posizioni. Illuminante è il caso della provincia di Agrigento, che al mese di vita guadagnato nel 2020 se ne vede sottrarre 19 nel 2021, al pari di quella di Caltanissetta che a un risultato positivo di 2 mesi in più contrappone una perdita di 14 mesi l’anno successivo. Non mancano nemmeno situazioni nelle quali a un quadro critico già emerso nel 2020 si assiste a un peggioramento l’anno dopo. Ad esempio, la provincia di Campobasso, con 15 mesi persi nel 2021 in aggiunta agli 11 già ceduti l’anno prima, e la provincia di Enna con 13 mesi di perdita in aggiunta agli 11 lasciati nel 2020.
Un’ulteriore chiave di lettura di questi andamenti è connessa al tasso di vaccinazione. Secondo i dati messi a disposizione dal Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 sulla somministrazione dei vaccini, risulta che al 31 dicembre 2021 l’86,7% della popolazione vaccinabile avrebbe ricevuto almeno una dose, l’83,3% anche una seconda (o un richiamo dopo la prima infezione) e, infine, il 36,2% la dose addizionale booster.
Il tasso di vaccinazione sul territorio, tuttavia, risulta diversificato soprattutto con riferimento alle seconde e terze dosi. Nel Nord il tasso di vaccinazione per seconde dosi è dell’84,2% a fronte dell’81,6% nel Mezzogiorno. Per la dose booster il Mezzogiorno si ferma al 33% mentre il Nord è al 37,9%.
Su base regionale quest’ultimo indicatore presenta valori relativamente più bassi in Sicilia (25,9%) e Calabria (30%). Tra le regioni del Nord, il fatto che nel Friuli-Venezia Giulia la speranza di vita si sia ulteriormente ridotta nel corso del 2021 può essere posto in relazione al fatto che in tale regione si riscontri un tasso di vaccinazione più contenuto con riferimento alla terza dose (33%).
L’eccesso di mortalità interessa più gli uomini e gli anziani
Secondo il Sistema di Sorveglianza Nazionale integrata dell’ISS, nel corso del 2021 sono stati registrati 58.705 decessi attribuibili a Covid-19, in calo rispetto ai 77.165 del 2020. Tuttavia, nel 2020 una quota addizionale minima di decessi (16 mila) può essere attribuita ad altre patologie concorrenti o a una parziale sottocopertura di casi Covid-19 letali. Tale conteggio, che complessivamente dà luogo a un eccesso di mortalità pari a 93 mila unità nel corso del 2020, lo si evince ipotizzando rischi di morte costanti pari a quelli osservati nel 2019 (647 mila decessi attesi rispetto a 740 mila rilevati).
Applicando il medesimo metodo di calcolo ai dati 2021 emerge con maggior chiarezza un quadro generale di miglioramento della sopravvivenza, già documentato attraverso le precedenti analisi della mortalità assoluta e della speranza di vita. Infatti, con rischi di morte pari a quelli del 2019, nel 2021 i morti sarebbero stati 651 mila. Il surplus accertabile, rispetto ai 709 mila decessi totali, è dunque pari a circa 58 mila casi, pressappoco la stessa quantità di eventi di decesso attribuiti a Covid-19, senza ulteriore surplus come avvenuto nel 2020.
Delle 58 mila unità stimate come eccesso di mortalità, circa 32 mila sono uomini e 26 mila donne, confermando che la pandemia colpisca letalmente soprattutto il genere maschile. In base all’età le perdite umane in eccesso si concentrano tutte dopo i 50 anni e risultano maggiori all’avanzare dell’età. Si registra un eccesso di mortalità nelle età più fragili, che per gli uomini interessa soprattutto le classi 80-94 anni (oltre 16 mila decessi in più), mentre per le donne prevale nella classe 85-99 anni (circa 18 mila).
A livello nazionale l’eccesso di mortalità rappresenta l’8% della mortalità riscontrata nell’anno (13% nel 2020) ma la situazione è molto varia sul piano territoriale. Nel Nord rappresenta il 7%, nel Centro l’8% e nel Mezzogiorno il 10% del totale. A livello regionale i valori variano dal 5% della Liguria al 17% del Molise, confermando un’immagine letteralmente capovolta rispetto al 2020.
Aumento dell’incertezza e fattori strutturali condizionano le nascite
Il Covid-19, unitamente alle restrizioni forzate sul piano della mobilità residenziale e delle celebrazioni nuziali ha prodotto un impatto psicologico specifico nel 2020 (perlomeno a partire dal mese di marzo) che ha avuto conseguenti effetti sulle scelte riproduttive portate a termine nel 2021.
In aggiunta a tale fattore, se si fosse procreato con la stessa intensità e col medesimo calendario di fecondità del 2019, quando si registrarono 420 mila nascite, nel 2021 se ne sarebbero osservate circa 405 mila, anziché 399 mila. Dunque, il solo effetto strutturale legato al processo di invecchiamento e riduzione della popolazione femminile in età feconda comporta un calo, a parità di calendario riproduttivo, di almeno 15 mila nascite. L’ulteriore calo di 6 mila nascite sul 2020 è frutto della reale contrazione dei livelli riproduttivi espressi, sui quali gli effetti pandemici hanno inevitabilmente esercitato una funzione.
Segnali di ripresa della natalità sul finire dell’anno
Il numero medio di figli per donna si attesta nel 2021 a 1,25 figli per donna, dunque in lieve rialzo rispetto all’1,24 del 2020, nonostante l’ulteriore declino delle nascite. Ciò si deve, come detto, al deficit dimensionale e strutturale della popolazione femminile in età feconda, che si riduce nel tempo e ha un’età media in aumento.
In prospettiva, al fine di contrastare la perdurante bassa natalità il Paese avrebbe bisogno non solo di fare molti più figli di quanti se ne facciano normalmente, ma anche di incrementare la base potenziale di chi potrebbe farli. Anche perché avere figli è sempre più una scelta rinviata nel tempo e, in quanto tale, ridotta rispetto a quanti idealmente se ne desiderano. L’età media al parto ha raggiunto i 32,4 anni (+0,2 sul 2020), un parametro che segna regolari incrementi da molto tempo (30,5 nel 2002).
Anche sul piano territoriale le variazioni su base annuale della fecondità sono di modesta entità, per quanto nel Nord e nel Centro il numero medio di figli per donna cresca, rispettivamente, da 1,27 a 1,28 e da 1,17 a 1,18. Stabile è invece il Mezzogiorno, fermo a 1,24 figli per donna come nel 2020. Troppo presto e troppo poco per poter valutare, come nel caso della mortalità, la presenza di un’accentuazione delle differenze territoriali di fecondità. Permane comunque solida la circostanza di molte regioni del Mezzogiorno (salvo Campania e Sicilia) ben al di sotto della fecondità espressa a livello nazionale. In particolare, Basilicata (1,10 figli per donna), Molise (1,08) e Sardegna (0,99) rimangono saldamente ancorate sul valore di rimpiazzo della sola madre (cioè a un figlio per donna) che non, idealmente, a quello della coppia di genitori.
La scelta di rinviare sempre più in avanti la decisione di avere figli accomuna tutte le realtà del territorio. Le neo-madri del Nord e del Centro, rispettivamente con età medie al parto di 32,5 e 32,8 anni, continuano a presentare un profilo medio per età più anziano rispetto a quelle del Mezzogiorno (32 anni). Ciononostante proprio in quest’ultima ripartizione si trovano le neo-madri mediamente più anziane del Paese, quelle sarde (33 anni) e lucane (33,1).
Segnali di ripresa provengono dalla nuzialità. Nel 2021 si è quasi tornati alla normalità grazie a 179 mila celebrazioni (3 per mille abitanti), quando nel 2020 se ne riscontrarono appena 97 mila (1,6 per mille). Non si tratta di un livello, quello espresso nel 2021, precisamente analogo a quello del 2019 (184 mila matrimoni) ma senz’altro in linea col trend discendente degli anni antecedenti la pandemia (270 mila matrimoni nel 2002).
Stante il positivo legame tra nuzialità e intenzioni riproduttive, considerato che tutt’oggi nel Paese almeno i due terzi delle nascite hanno origine all’interno del nucleo coniugale, la ripresa della nuzialità del 2021 potrebbe sottintendere un parziale recupero di nascite nel corso del 2022. In realtà, primi segnali per quanto timidi di ripresa si ravvisano già nell’ultima parte del 2021. A novembre e dicembre si sono registrate circa 69 mila nascite, il 10% in più di quanto rilevato nel medesimo periodo del 2020, ma sostanzialmente lo stesso valore osservato nel 2019.
08 aprile 2022
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Ultimo aggiornamento
9 Aprile 2022, 18:51
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